Anticipiamolo subito: i gig worker a tempo pieno che riescono a guadagnare cifre paragonabili a quelle dei lavoratori dipendenti sono ancora una minoranza. Per chi offre servizi qualificati, però, le piattaforme online possono diventare un valido strumento del freelancing. Anche in termini di retribuzione.

Le stime sul reddito dei lavoratori della Gig economy sono, in media, poco incoraggianti. Ma sono necessarie un paio di precisazioni. La prima: il fatto che la stragrande maggioranza dei gig worker siano impegnati in lavoretti poco qualificati mostra solo in parte il potenziale di questa modalità di lavoro per i professionisti specializzati. La seconda: mediamente, il gig worker lavora poche ore ogni settimana, da 1 a 4 ore nel 50% dei casi. Di conseguenza, il reddito medio ne risente.

Partiamo con i dati

Anche in questo caso attingeremo dallo studio italiano più completo finora pubblicato, quello della Fondazione Debenedetti. (Ne abbiamo già esplorate alcune evidenze sui Non solo rider – I numeri della Gig Economy).

Il lavoratore della Gig Economy italiano percepisce in media 346 euro al mese e 12 euro all’ora. Ne consegue che, mediamente, questi operatori lavorano meno di 30 ore al mese. Tuttavia, i dati medi non dicono molto sulle diverse realtà riunite sotto la stessa etichetta.

A trovarsi nella condizione peggiore, duole dirlo, sono i disoccupati che ammortizzano la propria condizione con il Gig working. Per questi ultimi la paga oraria scende da 12 a 7,9 euro. I lavoratori che si mantengono solo con i gigs e quelli che la sfruttano per arrotondare, al contrario, guadagnano in media 13 euro all’ora.

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Questa disparità si riflette sui risultati del reddito mensile. Chi lavora esclusivamente nella cosiddetta economia dei lavoretti percepisce in media 572 euro al mese; quanti la vedono come un secondo lavoro 351 euro; coloro che si definiscono disoccupati, infine, 139 euro. Questa disparità si spiega non solo con i diversi livelli della paga oraria, ma anche nel numero di ore lavorate dalle rispettive categorie.

Quasi sei disoccupati su dieci, fra quelli che si dedicano alla Gig economy, non lavora più di 4 ore alla settimana. Per chi si dedica esclusivamente a questo settore, il numero di ore lavorate è molto variabile. Come si legge nel report, esiste “una componente limitata ma non trascurabile di lavoratori impegnati per 30, 40 o anche più ore a settimana”. Fra questi, alcuni guadagnano anche cifre molto superiori alla media del settore.

Se si passa ad analizzare i dati sui redditi annuali dei gig worker saltano all’occhio dati tutt’altro che scontati. Il 3,9% del campione, infatti, percepisce tra i 35mila e 50mila euro all’anno; il 2,9% tra i 50 e i 75mila; l’1,8% guadagna in media 75mila euro e oltre. Stiamo sicuramente parlando di figure altamente qualificate, per le quali le piattaforme digitali sono un tramite più che “datori di lavoro” sotto mentite spoglie giuridiche. (Su quest’ultimo punto la Corte d’Appello ha riconosciuto lo status di lavoratori subordinati a alcuni rider di una nota società di food delivery).

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Come previsto, però, c’è un elefante nella stanza. Il 54,6% dei gig worker (unica fonte di reddito) guadagna meno di 8mila euro all’anno. Ovvero: sono al limite o al di sotto della soglia di povertà assoluta, per un single. Un altro 20,6% dei Gig worker percepisce fra gli 8 e i 15mila euro; contro un’incidenza del 17,7% fra i dipendenti. Il confronto più eclatante è, però, nella fascia 25-35mila euro annui: vi appartengono il 22,5% dei dipendenti e solo il 3,6% dei gig worker.

Precisazione importante: il confronto sui redditi annuali si riferisce a un numero di ore lavorate che è molto diverso fra dipendenti e operatori gig. Questi ultimi mediamente lavorano meno ore, anche se si considera solo la componente che si mantiene solo con i gigs. Non stupisce che quasi metà dei gig worker intervistati vorrebbe lavorare di più, potendo. L’altra metà, va detto comunque, è contenta così.

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