Lo scorso giugno il dibattito sul “decreto dignità” ha riportato la gig economy al centro dell’attenzione. Il governo e i media hanno dato grande risalto alla realtà dei riders, sollevando il problema di una maggior tutela per questa categoria di lavoratori.

I dati disponibili, tuttavia, suggeriscono che quella dei gig worker “in bicicletta” sia una componente minoritaria, se si guarda al panorama complessivo. Per questo l’importanza di un aggiornamento dei diritti dovrebbe partire da una fotografia nitida sui numeri della gig economy in Italia.

Secondo una definizione abbastanza versatile, il gig worker presta il proprio lavoro o i propri mezzi per soddisfare una richiesta veicolata tramite un’app. A questo gruppo, dunque, non appartengono solo i fattorini dei pasti a domicilio di Foodora o gli autisti di Uber, ma anche i freelance che erogano prestazioni qualificate on-demand, così come chi svolge lavoretti in casa altrui cogliendo una richiesta pubblicata su app come jobby.

Quante persone sono coinvolte in questi lavori in Italia?

Le stime sono complesse, date le caratteristiche spesso discontinue e mutevoli di questo lavoro. La Fondazione Debenedetti, in collaborazione con l’Inps, ha pubblicato recentemente la prima indagine campionaria sul tema. Il websurvey, compiuto nel maggio 2018, ha rivelato che la quota di lavoratori “gig” è il 2,03% del totale, cui corrisponde (al termine delle ponderazioni del caso) un valore assoluto di 589.040 persone. Quante, fra queste, potrebbero essere riders?

Secondo le risposte del sondaggio, che ha raggiunto un campione di circa 15mila persone, solo il 12% lavora fornendo un proprio mezzo privato come scooter e bicicletta “suggerendo che il grande dibattito su questa categoria copre solo una fetta circoscritta del fenomeno della gig economy”, ha affermato l’Inps nel suo XVII rapporto annuale. I dati relativi alle sole Foodora e Deliveroo, del resto, avevano mostrato che nell’ultimo anno avevano stipulato non più di 4mila contratti, per circa 1.200 utenti attivi mensilmente. 

Anche l’universo di Airbnb e società affini riguarda una minoranza: solo il 6,5% degli intervistati mette a disposizione un immobile nell’ambito della propria attività a richiesta.
Il 70% dei gig worker, la stragrande maggioranza, offre solo il proprio lavoro.

Questa vasta platea, tuttavia, risulta assai meno visibile dei fattorini in bicicletta. E non solo perché non la vediamo pedalare in strada con la divisa fluorescente. Gli occhi della previdenza nazionale, infatti, “non vedono” quei lavoratori autonomi che guadagnano meno di 5mila euro l’anno, in quanto non sono obbligati al pagamento dei contributi.

Anche nel caso dei professionisti titolari di partita Iva iscritti alla gestione separata Inps, inoltre, non è possibile stimare quanti dei loro committenti abbiano richiesto un lavoro tramite un’app di crowdworking. Eppure, anche in questo caso, stiamo parlando di lavoratori appartenenti alla gig economy.

È vero che quest’economia dei lavoretti attira soprattutto studenti?

Sicuramente si tratta di una fetta consistente, ma anche in questo caso non si tratta della maggioranza. Secondo i dati dell’indagine della Fondazione Debenedetti, i gig workers che hanno già un altro lavoro sono quasi il triplo rispetto a quelli che si dedicano esclusivamente a questa attività.

È però all’interno di quest’ultima categoria che ci sembra opportuno chiarire quali rapporti di lavoro possano necessitare di maggiori tutele. Un punto di partenza sarà individuare le modalità di lavoro on demand che presentano le maggiori analogie con un lavoro di tipo parasubordinato, eludendone le tutele.