Entrambe relativamente recenti e figlie della rivoluzione tecnologica, sono fenomeni che hanno fatto discutere e creato nuove forme di reddito. Ma no, non sono la stessa cosa.

Come abbiamo visto in un precedente articolo, i lavori svolti dai gig worker possono sono un’ampia varietà, così come i rispettivi redditi. A dispetto di questa complessità, che vede sotto la stessa etichetta tanto il professionista quanto il semplice fattorino, la Gig economy ha una caratteristica fondamentale. Non è l’occasionalità dei lavoretti (gigs), bensì il fatto che l’utilizzatore della piattaforma mette a disposizione il suo lavoro. La mediazione digitale, dunque, permette di avvicinare la domanda con l’offerta; nel caso della Gig economy parleremo di uno scambio basato sul lavoro.

La Sharing economy si avvale della stessa intermediazione, ma l’utente in questo caso non ricerca il lavoro altrui, ma vuole godere di un bene. Potrebbe trattarsi, nei casi più frequenti, di un’auto o di un appartamento. Il bene in questione viene sfruttato su richiesta (on demand), in modo temporaneo e – aspetto fondamentale – non viene mai comprato. Chi intende guadagnare nella Gig economy, in sintesi, offre il suo lavoro, mentre chi opera nella Sharing economy mette a disposizione un bene di sua proprietà.

I lavoretti o l’affitto temporaneo, di per sé, non sono attività inedite. Ma la comparsa delle piattaforme ha permesso di risolvere, in buona parte, alcuni problemi che un tempo frenavano la diffusione di queste pratiche. Come fidarsi di uno sconosciuto, ad esempio, per compiere un delicato lavoro in casa propria? Oppure, come dare in affitto la propria abitazione a persone mai viste prima?

La piattaforma, in entrambi i casi, permette di creare fiducia sulla base della condivisione delle informazioni. Se un autista di BlaBlaCar o di Uber si rivela un fastidioso marpione, verrà scoperto non solo dal primo malcapitato, ma, attraverso il principio delle recensioni (rating), anche dagli altri utenti della piattaforma. Le piattaforme digitali, in più, permettono una visibilità e una targettizzazione senza precedenti a qualsiasi annuncio. Se un tempo ci si doveva affidare a siti web poco ordinati o al passaparola, adesso ogni servizio (o quasi) ha la sua applicazione dedicata, che permette di coniugare domanda e offerta in modo assai più efficiente.

Gli effetti complessivi di questa rivoluzione sui modelli d’affari pre-esistenti è ancora oggetto di dibattito. Lo testimonia, ad esempio, la stretta regolamentazione, in alcune città, di AirBnB. Secondo i critici, infatti, allargare la concorrenza del settore alberghiero con l’affitto temporaneo delle case è una minaccia intollerabile. Soprattutto, questa pratica ridurrebbe drasticamente le case disponibili per l’affitto a lungo termine. A New York, ad esempio, è possibile affittare una casa per meno di 30 giorni solo se il proprietario la abita abitualmente.

Anche la Gig economy è stata spesso accusata di danneggiare la concorrenza di business regolamentati come quello dei taxi (con la messa al bando di Uber Pop in Italia e in molti altri Paesi) e di favorire una spinta al ribasso sui salari. Quest’ultimo aspetto sarebbe dovuto dalla grande facilità con la quale i servizi di gig working più basilari (come le consegne dei pasti a domicilio) possano trovare ampia offerta di lavoro. Di questi aspetti problematici avevamo trattato anche nel nostro articolo dedicato alle possibili conseguenze psicologiche su chi lavora nella Gig economy.

Tuttavia, gli aspetti positivi di Gig economy e Sharing economy sono indubbi e le nuove possibilità di reddito generate questi nuovi modelli fanno pensare che siano destinati a resistere, nonostante le regolamentazioni giuridiche. Infatti, grazie alla Sharing economy è possibile sfruttare appieno il proprio patrimonio, mettendo a reddito automobili, abitazioni e molto altro ancora. La Gig economy, dal canto suo, permette un utilizzo sempre più produttivo del proprio tempo e delle proprie abilità, con una flessibilità che permette di stabilire quanto tempo dedicare al tempo libero.